Chiesa e Università

Il servizio che la Chiesa intende offrire all’università

Parlavo di una pastorale che aiuti le persone a coniugare insieme la ricerca e la fede, l’esperienza culturale e l’esperienza di fede con riferimento consapevole alla Chiesa: una pastorale che tenga conto della peculiarità di un ambiente come l’università. Ho usato il termine ambiente a ragion veduta. È suscettibile infatti di una duplice interpretazione: la prima lo intende riferito al luogo, l’istituzione, nel caso concreto l’università con i suoi vari istituti e le diverse facoltà. La seconda intende ambiente come sinonimo di mentalità, quale si viene formando nella particolare e forte esperienza che si sta vivendo. In questo caso parlare di ambiente è riferirsi ad una cultura o, meglio ad una subcultura, nel senso di cultura correlata a condizioni di vita sociale o ad esperienze particolari.

La distinzione non è irrilevante, anche se fra i due modi di intendere ambiente non è necessario vedere contrapposizione. Sotto il profilo pastorale nel primo caso l’università sarebbe il luogo privilegiato per interventi e iniziative, nel secondo caso il campo è più ampio e la pastorale deve volgersi ad influire sul modo di formarsi di una mentalità. Si tratta non solo quindi di un diverso accento ma anche di un metodo diverso. Se per ambiente intendiamo l’università, allora è lì che soprattutto occorre operare e gli attori, i soggetti sono principalmente gli studenti e i professori e quindi gruppi, movimenti, associazione; se invece ambiente sta per mentalità, cultura allora nella pastorale è necessario un coinvolgimento della Chiesa nel suo insieme e nelle sue concrete articolazioni quali sono le parrocchie.

Personalmente sono d’avviso che la via da seguire sia quella che impegna la Chiesa tutta e quindi le comunità cristiane oltre naturalmente ai gruppi, associazioni, movimenti, siano essi giovanili o promossi da professori o comunque da adulti che esercitano una professione, avvalendosi anche dell’apporto che può venire da collegi universitari o strutture a servizio degli studenti e che come tali rappresentano punti di incontro.

Occorre cioè una convergenza non solo intenzionale ad un effettivo coordinamento di tutte queste componenti. Nessuna basta da sola.

I contenuti della pastorale universitaria

Ed ora alcuni orientamenti o, meglio, contenuti della pastorale universitaria. Nel proporli è naturale che si tenga conto e del contenuto proprio del messaggio cristiano e dell’esperienza universitaria: e ciò per una doverosa attenzione a coloro che vivono tale esperienza e per facilitare il loro approccio col messaggio cristiano.

L’università oltre ad una preparazione professionale a cui sono ordinante le facoltà e gli istituti; proprio in vista anzi di tale preparazione, tende, o dovrebbe tendere, ad abilitare ed educare l’intelligenza ad una valutazione critica della realtà e degli eventi. Dovrebbe cioè non limitarsi attraverso le lezioni a comunicare nozioni e ad offrire elementi di conoscenza, ma formare alla ricerca, sviluppare le risorse dell’intelligenza.

Questo il compito e l’ambizione dei maestri: non soltanto informare, ma anche formare. Ciò, quando avviene, non avviene generalmente in modo univoco. C’è in effetti, anche fra professori, un modo diverso di porsi di fronte alla realtà, come c’è un modo diverso di leggere e interpretare i fatti, presenti o passati, in dipendenza, solitamente, a punti di riferimento ideologici o a differenti visioni che si hanno dell’uomo e della storia. Non si lega il proposito di essere oggettivi nel valutare cose e persone, si può dubitare sulla riuscita. L’università è insomma pluralista culturalmente e al suo interno conosce un dibattito ed un confronto. Gli ultimi anni ci hanno mostrato come può anche farsi fucina di idee e di programmi che riflettano un’ideologia e prevedano e propongano una radicale trasformazione della società. È storia troppo recente per rievocarla, anche se volessimo limitarci all’università di Padova.

Radicale diversità fra ideologia e fede

Un primo orientamento pedagogico e propositivo insieme è da trarsi dalla sigolare novità del messaggio cristiano. Esso è parola di Dio all’uomo: l’iniziativa, per noi impensabile e imprevedibile, di Dio di volgersi agli uomini e parlare loro come a degli amici. All’origine della fede c’è la parola di Dio. Non è la fede cristiana il risultato di una ricerca o l’ultima meta di una severa riflessione: molte cose possono facilitarla, motivi interiori possono indurci a tendere a Dio, ma la fede è dall’ascolto: è generata dalla Parola quando è accolta nella mente, nella coscienza, da tutto l’uomo, il quale liberamente vi aderisce e consente (cfr. DV 2).

La rivelazione cristiana ha tutto il carattere, quindi, di un evento storico e unico. Non è, per così dire, principalmente una parola che manifesta all’uomo verità altrimenti inaccessibili; ma per essa Dio crea un rapporto con l’uomo, lo rende suo interlocutore, gli si comunica ed è attraverso l’accoglienza che inizia una relazione, un’esperienza nuova di comunione con Dio e in essa anche un nuovo conoscere, un accedere a verità prima non conosciute. All’origine della fede cristiana non c’è una dottrina astratta, un impegnativo etico, un’ideologia, ma una Persona, un Soggetto che si rivela e rivela.

Al vertice della prima creazione, così come è presentata e descritta nella Sacra Scrittura, c’è la Persona vivente di Dio e la persona dell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza. L’Essere è persona. È anche all’inizio della nuova creazione c’è la Persona del Verbo fatto carne: Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. La redenzione operata da Cristo è infatti la ricapitolazione in lui di tutte le cose: l’uomo è restituito, nel suo nome, ad un rapporto di comunione filiale con Dio Padre e a lui congiunto nel vincolo di amore dello Spirito.

Già questo è sufficiente a farci intendere non solo la riducibilità della fede ad una ideologia, ma la radicale diversità fra ideologia e fede. Alla sua origine c’è una Persona che si manifesta ed opera nella storia: una Persona che manifestandosi dà avvio ad una storia. La Rivelazione infatti avviene «con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2).

Il cristianesimo si presenta perciò come un invito ad un nuovo modo di vivere. Accogliere nella fede la Parola di Dio significa iniziare una vita nuova. Chi crede ha la vita eterna: la vita che viene da Dio e comincia ad essere partecipata per grazia al credente. Un messaggio di vita, dunque. Non è sufficiente l’adesione intellettuale ad un complesso di verità per potersi dire credente: l’atto della fede non termina, non approda ad enunciati ma alla Persona e quindi non si esaurisce in una conoscenza di tipo intellettuale, anche se la prevede e la suscita, ma tende ad un rapporto interpersonale con Dio che ha parlato e quindi a modificare la propria vita.

La persona – unica, irrepetibile, intelligente, libera, padrona di sé – è un essere in relazione, si realizza e si afferma mediante rapporti: prende anzi coscienza di sé attraverso relazioni interpersonali. Non solo, ma porta dentro di sé, ne sia o no cosciente, quale sigillo della sua origine un’insopprimibile tendenza a superarsi, a trascendersi. Le diverse religioni ne sono una conferma. Non nascono dalla paura o dal bisogno di protezione nelle avversità della vita, hanno la loro radice ultima cuore dell’uomo, in quell’inquietudine di cui parla sant’Agostino. Persino il tentativo di ridurre la fede nei confini di un’antropologia, per cui tutto ciò è detto nella parola Dio deve essere veramente affermato dell’uomo, viene a suo modo a confermare questa profonda e inesplicabile speranza o desiderio o nostalgia dell’uomo di superare se stesso in una specie di autodivinazione.

Ciò che l’uomo ricerca e che non può da solo raggiungere, ciò verso cui tende o che chiede nell’invocazione gli viene offerto da Dio, dalla sua parola. Dio raggiunge l’uomo in Gesù Cristo e lo raggiunge in un atto di amore liberante. Non mortifica il suo essere, né la sua libertà, gli apre l’accesso alla sorgente stessa dell’essere e della vita nuova, gli dischiude spazi inediti per la sua libertà chiamandolo a una comunione d’amore. Nulla, sotto questo profilo, è tanto estraneo al cristianesimo che presentarlo come una religione che proibisce, pone dei limiti. A renderci cristiani non è il rifiuto di qualcosa, ma l’accoglienza della Parola: una scelta positiva, quella, come si è detto, della vita nuova.

Il comandamento che Gesù dice nuovo e mio, il comandamento che compendia e compie tutta la Legge e la dottrina dei profeti, e che come tale è lo statuto di vita della Chiesa e dei credenti espresso nelle parole «amatevi gli uni gli altri come io vi ha amati». San Paolo dice che questa è la «perfezione della legge», e sant’Agostino scrive: «ama Dio e fa’ ciò che vuoi». L’amore è il sigillo della fede e il segno della fedeltà all’alleanza nuova. È opera dello Spirito.

La fede, in altre parole, esige una revisione profonda del modo di vivere, un mettere in crisi alcune certezze, un cambiamento, insomma, di mentalità e di conseguenza la sequela del Cristo. La fede ci chiede di diventare uomini nuovi.

Il valore delle norme è quello di sussidio, di segnavia per non deviare dal percorso iniziato dietro Cristo. In questo senso si può e si deve dire che ciò che non viene dalla fede, ciò che non è conforme alla sequela del Signore è peccato: infedeltà cioè a Dio al quale abbiamo dato l’assenso, venir meno di fatto all’alleanza che egli ha contratto con noi; è rompere un legame di amore al quale ci eravamo vincolati. Il peccato, segno della nostra fragilità e del cedimento a desideri che ci riconducono negli angusti confini dell’egoismo e di un disordinato amore a ciò che non lo merita, perché caduto e quindi impoverente la dignità dell’essere persona; il peccato dice relazione con Dio. È nel segno del rifiuto.

Se usando un linguaggio corrente vogliamo dirlo una caduta, allora essa diventa possibile per chi cammina sulla via di Dio, alla sequela del Signore. Un altro modo per dire che esso è un atto di debolezza, di infedeltà; un venir meno all’impegno di seguire il Signore verso il traguardo di una vita che si realizza nella comunione con Dio e così con i fratelli.

Scelta positiva di una vita nuova

Nel proporre un itinerario alla fede, avendo presente il mondo universitario, una tappa obbligata è quella relativa al rapporto tra fede e cultura. Si tratta di vedere se la fede e la cultura, che pur si riferiscono a realtà diverse per genesi, per fine hanno comuni punti di convergenza.

Della fede abbiamo detto: essa nasce dall’ascolto – accoglienza della parola di Dio, col quale crea un rapporto di comunione che dà origine e motiva un nuovo modo di vivere, rendendo partecipi della vita stessa di Dio. La cultura è invece opera dell’uomo, è frutto della riflessione e della ricerca: compendia in sé tutti quei mezzi coi quali affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo con la conoscenza e il lavoro, rende più umana la vita sociale, mediante il progresso del costume e delle istituzioni, comunica nelle sue opere esperienze ed aspirazioni spirituali, perché possano essere utili al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano (GS 53). Questa la descrizione che di cultura dà il concilio: una descrizione assai generale ma che ne evidenzia la dimensione antropologica, storica e sociologica.

Ciò che appare subito evidente è la diversità tra fede e cultura, sia per la loro origine: l’una, la fede, è dall’ascolto – accoglienza della parola di Dio e l’altra, la cultura, è impresa dell’uomo; sia per il fine cui immediatamente tendono: la fede inizia un rapporto di comunione con Dio e trova il suo ambito di vita nella Chiesa; la cultura guarda invece allo sviluppo della persona umana, nelle sue dimensioni molteplici e si fa segno ed espressione del suo dominio sulla natura: custode di quanto l’uomo ha accumulato nella storia capacità creativa e delle sue più alte aspirazioni, tutto la cultura trasmette alle nuove generazioni, in vista della continuità del processo storico; l’una, la fede, ha una sua dinamica di sviluppo e propri mezzi per consolidarsi e manifestarsi; l’altra, la cultura, tende a creare condizioni di vita, istituzioni, forme di convivenza civile e sociale che sempre meglio lo sviluppo delle scienza, delle arti, concorre in maniera determinante nella formazione del costume e nell’organizzare i beni della vita (cfr. GS 53).

Diverse dunque la fede e la cultura, ma non senza un reciproco e intenso rapporto. Questo dei rapporti fede – cultura è un tema che meriterebbe un’analisi attenta e un discorso a sé. Qui è sufficiente richiamare alcune cose: innanzitutto che la Rivelazione si è espressa in una cultura o, per esser più esatti, in varie culture.

La Parola di Dio si è comunicata nel linguaggio dei popoli e quindi di culture. Si può parlare di una «incarnazione della Parola di Dio nelle parole degli uomini» che ha raggiunto la sua pienezza quando il Verbo, la Parola vivente di Dio, si è fatto carne. Dio per rivelarsi e comunicarsi all’uomo usa i suo segni, le sue parole. Le parole umane sono assunte ed elevate alla grandezza di un sacramento della Parola. Così come «la natura umana, nella penezza dei tempi è assunta al servizio del Verbo divino, come vivo organo di salvezza» (LG 8). Dio parla all’uomo nella sua lingua, Cristo comunica con gli apostoli nel loro dialetto.

E questo avviene non solo nella Rivelazione – la Sacra Scrittura ne è un documento – ma continua nella vita della Chiesa. Fin dai suo inizi la Chiesa ha annunciato il messaggio evangelico, nella sua integrità e novità, nella cultura del tempo. E alla cultura ha fatto ricorso per approfondire la fede ed esprimerla in modo comprensibile. La teologia è una riflessione sulla fede che si avvale di categorie filosofiche e culturali. La storia della Chiesa conosce, sotto questo profilo, epoche diverse e anche atteggiamenti e prese di posizione non sempre omogenee nei riguardi della cultura.

Il rapporto, in breve, tra fede e cultura è un rapporto dialogico, non dialettico: tendono ad integrarsi e non dovrebbero reciprocamente escludersi. Se questo avvenisse, il danno sarebbe reciproco: nel senso che alla fede vien meno un mezzo per essere comunicata in modo compresibile e alla cultura vien meno un punto di riferimento che può garantirla dal muoversi su sentieri solitari, o dal rischio mai estinto di considerarsi l’ultitma parola sulla vita e il destino dell’uomo.

La ragione che motiva tale rapporto dialogico è tuttavia più profonda: la fede e la cultura in verità hanno come loro punto di convergenza l’essere dell’uomo. L’una e l’altra, a diverso titolo come si è detto, guardano all’uomo: la fede per ricordargli la sua vocazione e renderne effettivo il compimento, la cultura per richiamarlo ai suoi compiti storici, al dovere di «dominare la terra» e di creare forme di vita civile e sociale, dar vita ad istituzioni che promuovano il suo progressivo farsi come persona umana.

Lungi dall’opporsi alla cultura, la fede provoca l’impegno dell’uomo alla riflessione e alla ricerca, gli fa dovere di usare della sua ragione, ricordando insieme che ci sono verità più grandi di quella a cui la ragione da sola può pervenire, non tanto per sottolinearne il limite quanto piuttosto per rendergli noto che la sua vocazione lo spinge oltre le frontiere di ciò che umanamente è conoscibile, ad un rapporto cioè di comunione e di amicizia con Dio. Riconoscere l’esistenza di Dio e la sua perfezione è ancora a misura della ragione, anche se faticosamente vi perviene, come l’esperienza storica ci insegna, ma è la fede a rendergli nota la sua natura misteriosa, ciò che Dio ha fatto per la sua salvezza per mezzo del Figlio suo, il Verbo eterno fatto carne; è la fede a rivelargli che «Dio è amore», che «per primo e da sempre» il suo amore si è riversato sull’uomo. Che a lui ha parlato e parla «come ad un amico» per rapporto di alleanza che è comunione con Dio e vita.

In questa prospettiva si configura più chiaramente l’apporto della cultura alla fede – mezzo per comunicarla e approfondirla – e della fede alla cultura quale sostegno ed insieme invito a non ritenere la ragione come unico criterio di verità, a mantenerla aperta a ciò che è oltre il suo stesso limite, quello del quale la ragione stessa è consapevole: un invito, quindi, alla razionalità, come criterio di discernimento e di valutazione critica.

Nell’itinerario alla fede, questa è una tappa, se non decisiva, certamente di grande rilievo. Anche se per tutti il problema non si pone con la stessa intensità, non mi sembra possa a lungo essere eluso. Anzi, è un problema che risorge sempre di nuovo e che attende risposte e soluzioni sempre più approfondite. Tanto più questo in un ambiente come l’università e in un contesto culturale come l’attuale, marcato in modo contraddittorio da spinte irrazionale che privilegiano l’emotivo, l’immediato e dalla pretesa della tecnologia di dar ragione di tutto e, più ancora, di poter su tutto intervenire con arbitrarie manipolazioni, per affermare il pieno dominio sul reale e perfino sulla vita umana.

L’apporto della cultura alla fede della fede alla cultura

Nella stessa linea, come esplicitazione ulteriore, si inscrive anche il rapporto tra fede e valori sociali, etici, spiriruali e più generalmente tra fede e le scelte che ogni giorno siamo sollecitati a fare. La fede è un grido o un sentimento, né può essere considerata ininfluente nella vita, dal momento che tutta la coinvolge, fino a divenire principio di una nuova vita. Nelle pagine della Sacra Scrittura viene spesso presentata come una via e quindi come un modo di vivere, un criterio che orienta nelle scelte e in un certo senso funge da discernimento. Ridurla a fatto puramente interiore è svuotarla di ogni contenuto; essa al contrario illumina e ispira il rapporto con la cultura e la storia. C’è anzi da chiedersi se la fede non possa essere, in questo tempo, un valido aiuto per la riscoperta e comprensione di quei valori che sono presidio e punti di riferimento per un’ordinata convivenza umana.

Si parla del nostro come di un tempo di crisi e di una crisi la cui gravità è proprio nella mancanza di valori ai quali orientare la nostra azione. Il problema non è quello di rievocare altre epoche o di far rivivere situazioni sociali e culturali che non sono più, ma piuttosto di ripensare e dare contenuto e senso nuovo ai valori che sono di sempre anche se storicamente varia il modo di riconoscerli e in parte il loro stesso contenuto. Mi riferisco a valori etici e spirituali, a valori sociali e culturali, a valori religiosi e morali. Ciò richiede da una parte che la fede resti la fede senza scivolare in una visione ideologica del mondo e della storia, conservi cioè la sua misura trascendente e storica senza risolversi in cultura ma con la capacità di animare le culture e di porsi criticamente nei confronti di ogni ideologia.

Non intendo con questo rifiutare l’ipotesi di cultura e/o culture cristianamente ispirate: culture intendo dire che siano espressione storica di un modo di comprendere l’esistenza umana, abbiano come riferimento una antropologia cristiana e quindi anche un senso della storia, e concretamente orientino «il modo di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di formare i costumi, di far le leggi, di sviluppare le scienze e le arti, di coltivare il bello e organizzare i beni della vita» (GS 53). Questa rimane un’ipotesi, un progetto, forse mai compiutamente realizzato, ma che non deve esser per ciò stesso rinviato, rinunciando all’impegno che richiede.

Per altro verso occorre che la fede sia vissuta nella storia e concorra nella riscoperta e nel ricupero di quei valori che indicano in quale direzione volgere azione e ricerca: valori come fine dell’operare e come metodo e criterio di condotta. Così intesi, i valori non segnano solo una meta, ma hanno una funzione di segnavia sul metodo per raggiungerli.

Non si ottiene la pace se non con mezzi pacifici, né si ottiene la giustizia con mezzi che la offendono, per fare qualche esempio. Una fede dunque che sostegna l’agire morale e che aiuti a ricomprendere le ragioni del bene. Non si esce dalla crisi di valori se non con un rigoroso sforzo etico, chiedendo a se stessi quello che tanto spesso ci attendiamo dagli altri. La questione morale non si risolve ponendola, ma uscendo da una logica di comportamento, da ghetti ideologici, da una cupidigia di potere che della questione morale sono la matrice e l’alimento. E il potere, ormai lo si sa, non abita più soltanto al palazzo: sono infinite le sue dimore, spesso quelle meno sospettate. Una fede che aiuti l’uomo a ritrovarsi per ridare ordine alla sua vita e al vivere sociale.

Ho parlato di fede, mentre più propriamente avrei dovuto parlare di credenti, di persone che nel loro rapporto con Cristo hanno appreso che il senso e la riuscita della vita è condividere la vita di tutti, partecipare la fatica, cercando di aiutare gli altri a vivere. La novità del Vangelo è infatti quella indicata nell’immagine del grano che muore per portare frutto. «Se il grano non muore…»: una logica diversa, ma la cui efficacia va ben oltre dell’esperienza personale.

Qui il discorso si allarga fino a coinvolgere i cristiani, i loro doveri sociali e così la stessa Chiesa. Parla della fede è, infatti, parlare della fede della Chiesa, perché da essa viene annunciata e alla Chiesa ricongiunge coloro che l’accolgono.

Una fede che sostenga l’azione morale

È questa l’ultima indicazione che vorrei dare in merito alla pastorale universitaria.

Non è infrequente incontrare delle persone che pur dicendosi aperte e disponibili al Vangelo mantengono riserve, e talora gravi, nei confronti della Chiesa. Faticano, anzi, ad ammettere che la fede, l’adesione al Vangelo non sia dissociabile dalla Chiesa. Non vedono e non sempre intendono accettare il legame tra fede e Chiesa.

Le ragioni sono molteplici: alcune di carattere psicologico, altre più profonde ed attingono convinzioni o pregiudizi nei riguardi della Chiesa, altre sono da ricercarsi in una formazione ricevuta e riconducibile ad una tradizione culturale, molto presente nel nostro paese: un’eredità storica, legata almeno in parte anche al formarsi dell’unità nazionale. E non credo si debba sottovalutare il peso di quella corrente di pensiero che ha attraversato per lungo tempo marginalmente la storia del paese, ma che era prevalente nelle aule universitarie. In verità quella corrente culturale con la Chiesa rifiutava anche la fede.

Nonostante che il fenomeno dell’ateismo sia diventato un fenomeno non più solo di élite ma quasi di massa, occorre riconoscere che negli ultimi tempi alcune cose sono cambiate e, se non ridotte, le dure e severe critiche verso la Chiesa si sono almeno attenuate. Dire se questo sia avvenuto in conseguenza di una ricomprensione della sua realtà – intendo la sua realtà profonda di Chiesa corpo di Cristo, strumento e segno di universale salvezza – o non piuttosto perché se ne è vista la funzione etico-religiosa, è difficile. Forse l’uno e l’altro motivo insieme.

Certamente il concilio Vaticano II ha concorso e in maniera incisiva a dare della Chiesa una nuova immagine anche a coloro che la guardavano con diffidenza e sospetto e la giudicavano in termini di influenza politica in una direzione che non era quella desiderata. Soprattutto, pare a me, ha colpito la vitalità che la Chiesa ha espresso, la sua capacità di interpretare i tempi, la forza con cui ha riaccentuato la sua missione evangelizzatrice, il proposito di porsi al servizio dell’umanità nel suo itinerario storico perché raggiunga la meta cui è destinata, l’attitudine a riaprire il dialogo con le culture e il suo impegno per l’affermazione e tutela della persona umana, della vita e di quei valori che la fanno degna di essere vissuta. Motivi che non attingono alla natura misteriosa della Chiesa, ma che hanno concorso ugualmente se non ad eliminare diffidenze almeno a suscitare interesse.

Tanto più questo in un tempo come il nostro, segnato da convulsi cambiamenti, un tempo che ha infranto antichi equilibri senza ancora crearne di nuovi, di crisi, per usare la parola d’obbligo, la Chiesa, che pure ha le sue difficoltà e le sue interne tensioni, appare come un punto di riferimento. La crisi ne sfiora aspetti solo marginali, mentre induce a continue riflessioni per individuare forme migliori di presenza e mezzi più efficaci per un servizio al vangelo.

Evangelizzare la Chiesa nel suo mistero e nella sua missione

Il concilio, senza creare discontinuità o svolte, ha impresso alla vita della Chiesa un ritmo più intenso e vivace e ha insieme aperto prospettive nuove al dialogo non solo ecumenico, ma con le culture diverse e le diverse civiltà. Tutto questo è avvertito anche da chi rimane estraneo alla sua vita, ma solo in parte induce coloro che sono prevenuti o aderenti alle moderne ideologie, da quella marxista a quella radicale, a rivedere il proprio atteggiamento verso la Chiesa; si direbbe anzi che qualche caso accresce l’opposizione o contrarietà.

Ho fatto questa annotazione, un po’ lunga forse, per sottolineare permanenti difficoltà che la pastorale incontra anche in ambienti universitari, dove queste tendenze o posizioni sono presenti. È bene esserne consapevoli perché rappresentano un ostacolo oggettivo e resistente all’opera di evangelizzazione. Sono anche d’avviso che a poco valga la polemica aperta mentre assai più efficace è esporre le cose con molta chiarezza, senza facili irenismi o indulgenze accomodanti.

La Chiesa oltre che soggetto è oggetto e contenuto della evangelizzazione. Occorre oggi evangelizzare l’uomo, dire la buona notizia sull’uomo, ma occorre insieme evangelizzare la Chiesa e così ricongiungere nella coscienza dell’uomo moderno la sua vera vocazione e la Chiesa come il luogo, la comunità nella quale tale vocazione si compie. Esorcizzando quel timore che ancora permane in molti, che cioè nella Chiesa manchi o siano comunque ridotti gli spazi della libertà. Un timore che sembra essere più vivo prorpio in coloro che aderiscono o si fanno promotori di ideologie o magari militano in formazioni politiche che più ancora che a chiese assomigliano a sette per l’intransigenza e l’intolleranza che vi si respira: dove il dissenso è parola ammessa, non esperienza possibile.

Può sembrare una nota polemica, ma non lo è: è piuttosto una maniera esplicita di sottrarsi alle prese dei luoghi comuni, propri ad una certa cultura pronta a celebrare oggi quello che domani con disinvoltura rifiuta e condanna. Questi anni ci hanno offerto più di un esempio di questo rapido cambiamento di umore culturale, in nome di una cosiddetta autocritica, che viene più usata per garantire la propria dignità culturale che per riconoscere possibili errori o limiti.

Evangelizzare dunque la Chiesa nel suo mistero e nella sua dimensione storica, ma soprattutto in quell’aspetto che tanto sottolineavano i Padri dei primi secoli: la Chiesa che genera alla fede con la parola di Dio e i sacramenti la Chiesa che celebra la memoria del Signore e rende così possibile in ogni tempo e per ogni generazione un rapporto con Cristo; la Chiesa custode di una tradizione di santità che ci riporta fino all’età apostolica e conserva integro quel filo di una storia sacra che ha come suo autore Dio e come sua meta il Regno, e disvela così il senso stesso di tutta la storia; la Chiesa che fa conoscere all’uomo la sua genesi, la sua vocazione, le ragioni ultime della sua dignità nell’essere amato da Dio e in tal modo lo richiama a coltivare la sua dimensione interiore; che educa e invita alla preghiera, ripresentando all’uomo nella sua integrità la parola di Dio per la meditazione e la preghiera.

La preghiera – mi si consenta la digressione – è una parola un pò inconsueta oggi: si preferisce riferirsi da parte di alcuni ad altre esperienze suggerite dalla moderna psicoligia o da pratiche importante dall’ormai vicino oriente. Altro è la preghiera dall’intimismo o ripiegamento su se stessi, altro dalla pura ricerca di silenzio o di autocontrollo, o dalla scoperta di sé: è invocazione, uscita dalla cerchia angusta dell’io, è ascolto, domanda,  impertazione; è nel fondo esperienza di fede, un rapporto ricercato e adorante di Dio, un ritrovare le sorgenti pure dell’essere e quindi le nostre stesse radici; più ancora la preghiera è fare della parola di Dio la voce che lo invoca, lo riconosce, lo confessa e… lo ama. Amare Dio non è solo la pienezza della preghiera, è anche la nostra pienezza di creature che si volgono in un atto di comunione verso l’oggetto immenso, il totalmente altro, Dio che ci ha amato.

«Vivo – confessa san Paolo – nella fede del Figlio di Dio vivente che mi ha amato e ha dato se stesso per me». Può sembrare, questo, un invito alla contemplazione, che ad alcuni risuona come invito alla fuga dal male, al disimpegno, ad un atteggiamento assai simile a quello che Lucrezio riconosce al sapiente che rimane sulla vetta della montagna impassibile e distaccato a guardare con occhio compiacente e sdegnoso coloro che a fondo valle faticano e combattono, ma non è così. Nulla di tutto questo. La contemplazione – e l’averne perso il gusto non è l’ultimo male del nostro tempo – non si oppone all’azione, non ne è l’alternativa, ne è piuttosto la fonte e la matrice. Nel senso quanto meno che riconducendo alle pure sorgenti del nostro essere ci rivela la profonda esigenza di relazioni e di rapporti, le ragioni del dover operare, la matrice vera della solidarietà – o carità, meglio ancora – che spinge ad agire con gli altri, a ricercarne l’incontro con un interscambio di pensieri e di opere che è la condizione del proprio e dell’altrui farsi come persone.

La Chiesa, maestra di preghiera e così casa di comunione. È vero, guardando la comunità cristiana nel suo storico e quotidiano manifestarsi ne avvertiamo limiti, difetti, manchevolezze; si rivela cioè «santa e bisognosa insieme di conversione». La Chiesa ha anche la nostra statura, la quale è e resta limitata e fragile. Su questi aspetti spesso si appunta impietosa la critica: ha le sue ragioni quando individua le debolezze del credente, e così anche della comunità cristiana nel suo insieme. Ma la Chiesa va oltre, essa rimane sacramento di Cristo, strumento di salvezza, custode e annuncio della parola di Dio: celebra e vive della memoria del Signore, al quale ci unisce con la fede. La Chiesa fa conoscere a tutti Gesù Cristo ed è via all’incontro con lui: questo è il suo mistero e la sua missione. La Chiesa madre della fede.

Responsabili e soggetti della pastorale

Il soggetto primo della pastorale è questa Chiesa, che è pellegrina in Padova, nel suo insieme e nelle sue articolazioni in comunità parrocchiali, soprattutto quelle che per la loro collocazione sono prossime all’università e ospitano al loro interno studenti. L’indicazione ha il significato e il valore di un chiaro impegno che la diocesi deve assumersi nei riguardi dell’università, nel rispetto della sua natura ma anche cosciente della rilevanza che la sua presenza ha per la città e per la Chiesa. Non è un corpo estraneo e se ha regole e autonomia di vita da rispettare, se ha suoi tempi e sue cadenze, resta pur sempre nel tessuto vivo di questa città e termine di doverosa e preferenziale attenzione della Chiesa.

Le modalità con cui significare il servizio pastorale, le strutture a sostegno debbono precisate e definite. Così come mi sembra debba essere meglio individuato il ruolo dei gruppi e dei movimenti ecclesiali presenti in ambiente universitario e gli stessi collegi la cui consistente presenza può trovare una collocazione all’interno di un progetto pastorale. Per non parlare del gruppo dei docenti impegnati nella riflessione e capaci più di altri di dare un valido apporto nel promuovere un’adeguata azione pastorale. Ho avuto indicare subito persone e gruppi che, oltre le parrocchie, possono attivamente concorrere a definire una pastorale universitaria e sostenerla nella sua attuazione e nei suoi possibili sviluppi.

È necessario tuttavia precisare alcune condizioni che devono accompagnare e qualificare la pastorale.

Essa è innanzitutto azione comune, nel senso che nasce da una collaborazione sia nel momento propositivo sia in quello operativo. Richiede cioè una convergenza sulle linee essenziali e sui contenuti; non è uniforme ma comunitaria e quindi capace di esprimere l’articolata ricchezza propria dell’esperienza ecclesiale. Rinunciare in qualche caso a personali punti di vista o a scelte metodologiche preferenziali può richiedere un sacrificio, ma a mio avviso è un prezzo da pagare alla concordia di un indirizzo che non appiattisce le originalità di nessuno, gruppo o persona, ma coordina energie in vista di un fine da tutti voluto e inteso.

Per singolare che possa sembrare, questo non sempre oggi è facile: la tendenza a identificare la pastorale con proprie scelte e punti di vista è molto forte e in parte anche comprensibile. Sono due le spinte che marcano la vita della Chiesa in questo tempo, una quella fortemente riproposta della Cei verso una comunione più intensa, non solo come proposito ma come esperienza concreta e vissuta; l’altra, quella più congeniale ad alcuni gruppi ecclesiali, volta ad accentuare la peculiarità delle proprie intuizioni e progetti. Non sempre le due tendenze si compongono in maniera felice, restano comunque il segno di un dinamismo interno alla Chiesa che ha un suo valore e forse una sua fecondità.

Occorre tuttavia, in ordine alla pastorale universitaria che le energie diverse trovino dei punti di sostanziale convergenza, sia nel programma che nella metodologia, se si vuole, com’è nelle intenzioni e nei propositi, dare all’impegno della diocesi un contenuto concreto ed una efficace espressione.

Molto più arduo è dire con chiarezza in quali iniziative tale pastorale intende realizzarsi. Certamente sono prevedibili incontri a vari livelli e saranno offerte occasioni a studenti, professori e personale non docente per riflessioni comuni su alcuni dei temi sopra indicati, oppure su altri potranno essere suggeriti o provocati da particolari circostanze.

Ad offrircene occasione è l’Anno giubilare che si celebra nella Chiesa per ricordare il 1950º anniversario della Redenzione: e si può anche prevedere che un luogo di culto resti aperto, sotto la cura di un sacerdote, come punto di riferimento per studenti e professori che desiderano raccogliersi in preghiera. Non parlerei né di cappella universitaria o meno ancora di un centro di una possibile parrocchia universitaria, ma semplicemente di una chiesa che, nei pressi degli istituti universitari, sia ad un tempo luogo di raccoglimento e segno di una volontà di riservare una preferenziale attenzione pastorale all’università.

Universa universis patavina libertas” resta un motto e un impegno per la secolare e celeberrima università di Padova: non è contraria alla sua nobile tradizione ritrovare nella fede cristiana un ulteriore motivo ad onorare la libertà della ricerca e la libertà di ogni persona. La fede ricorda che l’uomo è chiamato alla libertà dei figli di Dio con l’impegno di sottrare la creazione tutta, raccogliendone il gemito, alla servitù della corruzione per renderla partecipe di quella regale libertà che san Giacomo indica come la via per coloro che hanno accolto la parola di Dio.

Ma tutto questo – intendo le iniziative pastorali e le forme concrete di espressione – sarà programma da concordarsi con il contributo di quanti vorranno partecipare a questo servizio, che la Chiesa di Dio in Padova intende offrire all’università.

 

Tratto da:

Filippo Franceschi, Compagni di strada nella storia, Libreria Gregoriana Editrice, Padova, 1984 (pp.140-157)